Buon pomeriggio cari lettori,
oggi la nostra Lya ci parla di La libertà del pettirosso di Francesco Di Giulio edito da Lettere Animate.
Trama: Siamo in un monastero medievale e temprati
uomini di chiesa decidono inspiegabilmente di morire nei modi più atroci. Un
luogo isolato su una rupe maligna, pergamene forgiate nell'inferno, monaci al
cospetto del proprio destino.
Fuoco, sangue e libertà.
Può l'anima istintiva e pura di un bambino
recluso redimerli dai loro peccati?
Recensione: Il romanzo inizia con un prologo in cui una
persona, nel 1145, svela vicende accadute nel lontano 1107. Si intuisce presto
che è un qualcuno bene informato dei fatti, un abitante di quell’eremo che è
l’Abbazia di Monte Gennaro. Ci troviamo quindi di fronte a una “voce narrante”.
Da subito, nella lettura, incontriamo alcuni
Frati e poi delle Consorelle. Sì, perché questa Abbazia è condivisa e retta per
tutti dall’Abate Sabino.
La storia inizia con un risveglio mattutino,
uno come tantissimi altri in un luogo sereno, tranquillo e soprattutto monotono
come è un monastero: le solite cose da fare, soprattutto la preghiera mattutina.
Frate Marzio, vice cellario, ossia colui che aiuta il capo cellario nella
conservazione dei cibi e di tutto ciò che riguarda le provviste del monastero
(legna per riscaldarsi inclusa), tra i suoi compiti ha quello di svegliare il
capo cellario, Frate Bernardo. Ma proprio quel mattino ne scopre il cadavere:
il monaco si è tolto la vita impiccandosi. Dettaglio fondamentale, che sarà il
leit motiv di una serie di suicidi, è la presenza di una piccola pergamena, con
una scritta in latino, chiusa con un filo di canapa nella quale qualcuno
afferma di conoscere antichi misfatti del frate destinatario, ragione per cui è
fondamentale espiare la propria colpa.
“Sono a conoscenza di ciò che hai fatto a quel
bambino. Se vuoi la pace eterna tra le braccia del Signore togliti da questo
mondo, salvati, solo così potrai godere di vita eterna. Riposa in pace.”
Il
silenzioso e pacioso monastero inizia così a vivere nell’angoscia. Come mai un
uomo tanto timorato di Dio si è tolto la vita, in un modo violento e comunque aborrito
dalla Chiesa? Una serie di suicidi
continua a colpire la tranquillità dei monaci.
Lentamente,
a mano a mano che le pergamene raggiungono i destinatari, vengono alla luce per
il lettore i vari peccati di cui si sono coperti i diversi monaci. E prima
dell’ultimo suicidio, si svela anche chi sia il mittente, una persona cui
nessun frate, nonostante i numerosi ragionamenti, arriverà mai perché
sconosciuto e mai venuto a contatto con loro. E allora come mai lo scrivente sa
tutte queste cose? Una parte è spiegata nel prologo dove l’autore fa un accenno
ai sogni, quelli che sembrano così veri e dai quali non riesci a emergere
perché ne sei parte integrante, ne sei protagonista. Sogni, o incubi, che ti
lasciano il segno, che ti tolgono il respiro.
È,
infatti, attraverso particolari sogni che il mittente conosce di eventi
accaduti in un passato che gli stessi protagonisti vorrebbero dimenticare.
Personalmente
ho apprezzato la descrizione degli ambienti interni ed esterni del monastero.
L’autore è riuscito a far viaggiare l’immaginazione e a farmi percorrere i
corridoi o le sale dell’Abbazia come se io fossi uno di quei monaci.
Ammetto
anche che il periodo in cui si svolge la storia, e tutto ciò che riguarda quei
luoghi nascosti, ermetici come i monasteri antichi, mi ha sempre
affascinata.
Lentamente
Francesco Di Giulio svela le abitudini dei singoli frati e mi ha colpito la
scaltrezza di uno di loro, il confessore, che attraverso il suo compito
ministeriale riusciva a tenere in pugno i novizi. Era l’unico a sapere il lato
più nascosto di ogni ragazzo e per questo impartiva punizioni o assegnava
compiti pesanti, certo che nessuno si sarebbe mai ribellato.
Era,
infatti, frate Bastiano, assieme all’Abate Sabino, a decidere delle sorti dei
ragazzi entrati in monastero: se troppo intelligenti venivano isolati affinché
non emergessero e recassero scompiglio, soprattutto nei confronti degli anziani
che non volevano vedersi usurpare dei propri ruoli; se timidi e malleabili
venivano destinati a compiti di un certo livello, proprio perché facilmente
gestibili come marionette.
Ovviamente,
anche frate Bastiano è uno dei quattro monaci destinatari della pergamena.
L’autore
dà un primo assaggio di tensione quando inizia a far trapelare indicazioni sul
possibile mittente, spiegando che la grafia sembrava quella di un uomo adulto o
comunque di uno dei novizi più grandi, prossimi al sacerdozio. Sì, perché
soltanto chi aveva una certa esperienza scriveva in quel modo, con accuratezza,
conoscendo bene la lingua studiata (ricordiamoci che all’epoca gli unici in
grado di scrivere erano appunto i monaci, e chi entrava da poco doveva ancora
imparare tutto). Invece, l’autore spiega che la mano sulla pergamena si muoveva
da sola, imprimendo sulla carta ciò che doveva, con una scrittura che non era
la sua. Non solo, non appena il pennino del calamaio si ferma, dopo aver “fatto
il suo dovere”, la persona che scrive torna nella pace. E lì mi sono chiesta
chi mai potesse essere tra i novizi quello che sapeva ogni cosa. Un continuo punto
interrogativo che è aumentato nello scoprire che si trattava di una persona isolata,
di cui nessuno conosceva l’esistenza, e che aveva un complice all’interno del
monastero.
L’Abate
Sabino si ritrova a dover affrontare tutto da solo, ed è nel panico perché non
sa come acquietare gli animi dei suoi confratelli, ormai tutti preoccupati
dalle vicende che stanno accadendo. E ho provato compassione per lui,
immaginandomi la sua pena. Non è facile gestire un’Abbazia, avere gli occhi di
tutti puntati addosso per vedere cosa si è in grado di fare. Anche perché il
primo frate si è ucciso impiccandosi, il secondo avvelenandosi e il terzo si è
gettato nel vuoto.
“Il buio, il male, il sentimento pieno e iracondo della paura e
della morte abitavano in quel
luogo.”
Ed
è proprio l’Abate che nella sua saggezza spiega il senso del titolo di questo
romanzo. Attraverso le sue labbra l’autore lascia intendere che tutti nasciamo
liberi come pure gli uccelli. I pettirossi vivono nei propri nidi al sicuro
perché si sono creati il loro giaciglio con cura e determinazione. Eppure al
primo rumore istintivamente fuggono via perché non si sentono più tranquilli.
Torneranno non appena tutto si calma di nuovo.
Ho
riflettuto su questo paragone e di fatto anche l’uomo si costruisce con cura e
determinazione la sua vita, preoccupandosi di trovare la propria sicurezza: una
famiglia, il lavoro, una casa. E se pure l’esistenza venisse sconvolta da
imprevisti, dopo un primo sballottamento, sempre lì torna a fissare la propria
“dimora”.
Per
i monaci dell’Abbazia di Monte Gennaro non è diverso. Ognuno con determinazione
si è creato un rifugio, un ruolo da far rispettare a chiunque. A ogni costo, in
ogni modo, anche macchiandosi di azioni spregevoli.
Un
altro messaggio che forse l’autore ha lanciato e che comunque mi ha colpito è
nella frase pronunciata dall’Abate: “La gente ama e rispetta ciò che
rappresenti e non ciò che sei” e questo trovo che sia per tutti, nel bene e nel
male. Le apparenze sono sempre molto
importanti e poco importa se dietro ci sono feroci critiche.
Mano
a mano che leggevo la preparazione del quarto biglietto, scoprendo l’atroce
azione portata a termine in passato da un monaco, la tensione si era fatta
altissima. È stato qui il terribile colpo di scena per me. Perché non avrei mai
creduto fosse lui, proprio la persona che ritenevo la più mite. Ma il
protagonista, invece, sapeva tutto sin dall’inizio, sin dal momento in cui era
morto il primo frate. Infatti, guardando la pergamena trovata nella sua cella
sospira e dice “Sei arrivato dunque!” come se avesse saputo sin dal principio
che era soltanto una questione di tempo, che lo scrivente avrebbe trovato anche
lui.
“Siamo tutti eternamente schiavi dei nostri segreti, siamo tutti
timorosi prigionieri di ciò che è dentro di noi”
e questo vale,
secondo me, sia per chi, come nel romanzo, è convinto di avere dentro di sé un
demonio, sia per chi, al giorno d’oggi, deve fare i conti con la propria
coscienza. Non si può sfuggire sempre, né agli eventi, né al tempo, né alla
propria consapevolezza. Inutile nascondersi, fare come gli struzzi. La verità
esce sempre fuori, solo che più trascorre il tempo, più ci si presentano
interessi maggiori.
Altro
elemento stimolante di questo romanzo è che dopo aver scoperto l’ultimo
colpevole e aver chiuso il “cerchio”, resta un ulteriore finale inaspettato.
Non mi sarei mai immaginata cosa è stato richiesto anche al narratore, che pure
all’inizio del romanzo aveva fatto intendere che questo era l’ultimo scritto
poiché era giunto alla fine dei suoi giorni. L’autore mi ha lasciato davvero a
bocca aperta.
Nell’insieme,
questo thriller storico è ricco di colpi di scena, di sorprese. Una storia ben
scritta e per la quale ho trovato soltanto poche imperfezioni a livello di
editing e in maggioranza nella terza parte del romanzo stesso.
Consigliato
a tutti (adulti e adolescenti) e a chi ama ambientazioni medievali con tutte le
sfumature più “nere” dell’epoca.
Voto:
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